La storia
Fu il Viceré di Napoli Don Pedro Álvarez de Toledo y Zúñiga, nel suo programma di ampliamento e rinnovamento della città, a volere la costruzione di un palazzo vicereale all’estremità meridionale della via che ancora oggi porta il suo nome: via Toledo. I lavori, iniziati nel 1543, furono affidati alla direzione degli architetti Ferdinando Manlio e Giovanni Benincasa.
Ma fu solo con il Viceré Conte di Lemos, Fernando Ruiz de Castro, che nel 1600, in occasione di una programmata visita ai domini napoletani del Re di Spagna Filippo III e della sua consorte, si decise la costruzione di un palazzo degno di ospitare la coppia reale. L’incarico fu affidato a Domenico Fontana, l’architetto ticinese più in voga a quel tempo, reduce dei lavori per il Pontefice in Vaticano e al Quirinale. Il progetto del Fontana prevedeva di rivolgere la facciata principale, non più, come quello vicereale, verso la strada di Toledo, bensì ad ovest, verso la collina di Pizzofalcone, permettendo così un dialogo tra la vecchia città e lo spazio aperto della marina. La visita dei reali spagnoli non si realizzò, mentre i lavori al palazzo, ormai divenuta nuova sede dei Viceré di Napoli, continuarono anche sotto i successori del Conte di Lemos.
Con Carlo di Borbone, conquistata Napoli nel 1734, il Palazzo divenne finalmente residenza reale di un monarca di un regno autonomo e non più dipendente dalla Spagna. Vennero ripresi i lavori di ampliamento e di restauro del Palazzo, che continuarono sotto Ferdinando IV, con la costruzione di due nuove corti, quella delle Carrozze e quella del Belvedere, e, in occasione delle nozze del Re con Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, con la realizzazione della Gran Sala e del Teatrino di corte.
Con l’avvento dell’Unità d’Italia il Palazzo divenne, quindi, residenza di rappresentanza della casa Savoia fino al 1919, quando entrò a far parte dei beni museali dello Stato Italiano e si decise di collocare, anche grazie all’intervento dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione, Benedetto Croce, la Biblioteca Nazionale di Napoli (già Reale Biblioteca Borbonica), e di trasferirla dal Palazzo degli Studi (attuale Museo Archeologico Nazionale) agli appartamenti reali dell’ala orientale della Reggia.
La facciata
L’impronta iniziale data al palazzo da Domenico Fontana sopravvisse, soprattutto nella facciata e nel Cortile d’Onore in tardo stile rinascimentale, nonostante l’avvicendarsi, nel corso dei secoli, di numerosi altri celebri architetti, come Ferdinando Sanfelice, Bartolomeo Picchiatti, Luigi Vanvitelli, Ferdinando Fuga e Antonio Niccolini, che concorsero ad abbellire ed arricchire la Reggia napoletana.
Alla fine del ‘700 la facciata del Palazzo subì una rilevante modifica su indicazione di Luigi Vanvitelli, vennero infatti murate ad intervalli le aperture del portico e nelle nicchie ricavate nel muro, al tempo di Umberto I, furono collocate otto statue dei rappresentanti delle dinastie che regnarono a Napoli.
Gli ambienti seicenteschi
Molti sono gli ambienti seicenteschi dove permane lo stile barocco e le decorazioni originarie degli interni, come il ciclo di affreschi che furono commissionati a Belisario Corenzio e Battistello Caracciolo per esaltare ed evidenziare la continuità dinastica della casa reale di Spagna con quella aragonese di Napoli. Nella Seconda Anticamera, infatti, si conservano gli affreschi del Corenzio dedicati ai Fasti di Alfonso d’Aragona e, percorrendo la fuga di sale, si raggiunge quella del Gran Capitano, con storie legate alla conquista del Regno da parte di Consalvo Fernández de Cordoba per mano di Battistello Caracciolo e, per finire, nel Salone degli Ambasciatori, dove i soffitti a riquadri affrescati ancora una volta dal Corenzio presentano le storie dei Re Cattolici e dei loro successori.
Il Teatro di corte
Progettato da Ferdinando Fuga ed inaugurato nel 1768 il teatro ospitò i maggiori rappresentati del melodramma e dell’opera buffa della scuola musicale napoletana, quali Cimarosa, Pergolesi e Paisiello. Nel 1799 vi fu proclamata la Repubblica Napoletana.
Danneggiato dai bombardamenti dell’ultimo conflitto mondiale, è stato restaurato negli anni del dopoguerra.
Gli ambienti neoclassici
A partire dal Decennio francese fino al tempo di Ferdinando II irromperà nella Reggia lo stile Neoclassico, ben visibile nel monumentale Scalone d’Onore, opera dell’architetto Gaetano Genovese, nella Sala del Trono, nei rimaneggiamenti della Cappella Palatina e in molti altri ambienti.
La sala del trono
La Sala del Trono del Palazzo Reale di Napoli, anche detta Sala del Baciamano, è una delle più importanti e sontuose sale di rappresentanza della Reggia napoletana. Nella fuga di sale dell’appartamento reale, essa si trova tra quella degli Ambasciatori e quella delle Guardie del Corpo, secondo la disposizione data al tempo del Conte di Santostefano, Maggiordomo Maggiore e Ministro di Carlo di Borbone.
È caratterizzata dalla presenza del Trono, simbolo fisico della maestà regia, dove il sovrano si disponeva al “baciamano” dei personaggi della corte e degli altri dignitari che fossero stati ammessi a tale importante cerimonia. Il baciamano, una delle espressioni del potere delle monarchie assolute, si allestiva in occasione dei più rilevanti avvenimenti riguardanti la Casa Reale (incoronazioni, genetliaco del Re o della Regina, nascita degli eredi al trono, partenza o arrivo dei sovrani dal Regno, e altre ricorrenze di pari misura).
La sala, di forma rettangolare, riecheggia del gusto neoclassico e dello stile impero, attribuitagli dagli ultimi interventi architettonici al tempo di Ferdinando II. Il cielo della stanza è, infatti, contornato da figure classiche femminili, in stucco dorato, che rappresentano allegoricamente tutte le province di cui si componeva il Regno delle Due Sicilie. Il trono di legno intagliato e dorato, che risale alla prima metà dell’800, è sormontato dal un baldacchino di velluto rosso ricamato in oro. Difronte ad esso domina il quadro di Vincenzo Camuccini (1771-1844), raffigurante Re Ferdinando I di Borbone, al tempo della Restaurazione, che offre a San Francesco di Paola, quale ex voto per la riacquistata patria napoletana, la costruzione della Basilica dedicata al santo nella piazza antistante il palazzo reale.
In questa sala, l’8 novembre del 1860, durante l’Epopea garibaldina per l’Unificazione della penisola italiana, Vittorio Emanuele II, Re di Sardegna, venne investito della sovranità dei Regni di Napoli e di Sicilia.
Gli arredi interni
Gli arredi interni del Palazzo Reale sono frutto di una stratificazione di epoche e di stili differenti, che nel tempo sono andati ad arricchire e rendere sfarzosi gli appartamenti reali, sia intimi che di rappresentanza. Vi sono custodite le massime espressioni dell’arte e dell’artigianato napoletano ed estero: dagli arazzi della Reale Arazzeria di Napoli a quelli della manifattura francese Gobelins; dalle porcellane della Real Fabbrica di Capodimonte a quelle di Sèvres e di Limoges, dai mobili della ebanisteria napoletana ai francesi di epoca napoleonica, dai centrotavola, lampadari e orologi in bronzo dorato alle preziosissime opere pittoriche di numerosi importanti artisti.
La Foresteria
La Foresteria di Palazzo Reale (oggi sede del Palazzo di Governo o Prefettura) è uno dei palazzi storici della città di Napoli. Fu costruito tra il 1813 e il 1818 nel Largo di Palazzo, dove all’incirca vi sorgeva la cinquecentesca chiesa di Santo Spirito, ed intervenne a fare da pendant all’edificio che gli sta di fronte (Palazzo Salerno), nell’opera di razionalizzazione degli spazi della piazza, eseguita al tempo di Re Gioacchino Murat. Il progetto dell’architetto Leopoldo Laperuta, infatti, prevedeva una grande esedra porticata di colonne doriche, che richiedeva ai suoi fianchi il rispetto di una rigorosa simmetria; da qui l’idea di progettare un palazzo gemello a quello preesistente sul lato opposto. La laicità del Decennio francese, e la conseguente soppressione dei Monasteri, offrirono maggiore disinvoltura alla demolizione nel 1809 della chiesa e del monastero di Santo Spirito, dove sarebbe sorto l’edificio, ma i lavori furono bruscamente interrotti con la caduta di Murat e la Restaurazione borbonica.
Re Ferdinando I di Borbone, coll’intento di dare anche un’impronta urbanistica alla sua nuova fisionomia di regnante, volle riprendere il progetto murattiano non solo coll’idea di convertire nominalmente il “Foro Murat” in “Foro Ferdinandeo”, ma anche di assolvere ai doveri di sovrano devoto alla religione e restauratore dell’ordine perturbato, dotando la piazza della Reale Basilica Pontificia di San Francesco di Paola. Vennero così ripresi i lavori e il palazzo fu destinato a divenire la Foresteria del Palazzo Reale, di cui richiamava i colori nella facciata (rosso e grigio).
Il palazzo presenta, in chiave “napoletana”, la struttura di edificio neoclassico, formato da due distinti ordini: il primo costituito da un ampio basamento di intonaco a bugne di colore grigio, il secondo scandito da lesene di intonaco grigio su fondo rosso pompeiano.
L’arredo degli interni del piano nobile, con la sua ricca collezione di dipinti e tempere alle pareti, secondo il gusto classico in voga, fu curato da Antonio Niccolini, primo architetto della Real Casa e caposcuola del Neoclassicismo napoletano, celebre per aver tra l’altro ridisegnato il Teatro di San Carlo dopo l’incendio del 1816. Fu sede del Ministero degli Affari Esteri del Regno delle Due Sicilie fino a quando, trasferito il ministero al Palazzo dei Ministeri (Palazzo San Giacomo) nel 1823, fu adibito a Foresteria del Palazzo Reale. Le sale del palazzo furono dunque destinate ad accogliere importanti personaggi, ospiti del Re e della Corte, come lo Zar di Russia Nicola I e la sua consorte durante il loro lungo soggiorno napoletano del 1845.
Dal balcone principale del palazzo fu proclamato l’esito del Plebiscito del 1860, decretando così l’annessione del Regno delle Due Sicilie al neonato Regno d’Italia e il palazzo cambiò nuovamente destinazione, divenendo Palazzo del Governo. Nelle botteghe al piano strada, che danno sulla Piazza San Ferdinando, sin dal 1890 furono frequentati da numerosi artisti e artigiani che, sotto la direzione di Antonio Curri, contribuirono ad allestire il più celebre caffè letterario della Belle Époque partenopea: Il Caffè Gambrinus, luogo di abituale incontro di artisti, letterati, uomini politici e di celebri personaggi della Napoli di fine 800 (http://grancaffegambrinus.com ).